Come una stalagmite in frigorifero

1.

– Oggi nella nostra lezione parleremo di un eminente personaggio, colui che fuggì da questa vita miserabile e senza scampo …

Seduto nella grande aula ascoltavo il professore parlare senza porvi particolare attenzione, allo stesso modo con cui osservavo la mia vita che scorreva silenziosa e monotona come una partita a biliardo sul telefonino. I miei momenti più eccitanti erano quelli in cui scoprivo un nuovo insulto per definire i miei coinquilini che, maledetti, non pensavano a nient’altro a parte essere gentili con me.
La città in cui vivevo era buia e sporca ma comunque aveva un fascino perverso che riusciva a catturarmi ogni volta. Mi sarebbe piaciuto farmi divorare nel profondo da quest’anima nera e maledetta … ma, c’è sempre un ma, in quale vita non sussiste un ma, quel ma che ci impedisce di fare quel passo, che ci impedisce di esseri liberi per sempre?
Il mio “ma” era l’incapacità di aprire varchi spazio-temporali. C’era riuscito una volta, un uomo, ed era morto, miseramente, sotto un autobus, perché aprì un varco proprio in un tombino in mezzo alla strada.
Sfiga certo, ma anche una certa pianificazione diabolica da lassù mi son detto.
Se Dio esiste è un gran stronzo.
Insomma, la mia vita si articolava in giornate passate strisciando tra corridoio e cucina, cercando l’equazione che potesse permettermi di liberarmi dalla mia pesantezza di vivere e dalle chiacchiere dei miei coinquilini cialtroni semplicemente aprendo una porta, ritrovandomi così in uno spazio e tempo differente.
Uno spazio e tempo in cui ero stato veramente felice…
In quel periodo mi davano sui nervi l’espressione manifesta di felicità, le pacche sulle spalle di commiserazione e la gente che non ti risponde al telefono, come me. Sicuramente non si poteva dire un’esistenza allegra, ma piuttosto tormentata da sensi di colpa e maledizioni lanciate da fattucchiere di passaggio.

Quel giorno mi svegliai di soprassalto perché il mio coinquilino aveva deciso di creare una piscina artificiale dentro casa. Il progetto era andato in porto perciò, indossando il costume, mi tuffai dalla porta e corsi a insultarlo. L’acqua, però, saliva a dismisura, e, mentre cercavo le parole, quella mi inondava la bocca.
Brutto… blub!
Cos… glub.
Ho det… blub che sei una gran testa di… glubs!
Impossibilitato all’insulto, tornai a grandi bracciate verso la mia stanza. Mi sentivo frustrato da certe situazioni.
La cosa peggiore era che il mio propulsore ad aria cosmica aveva smesso di funzionare, quindi non potevo nemmeno lanciarmi dalla finestra per uscire di casa, anche se il freddo artico sconsigliava di avventurarsi all’esterno, fuori dalle sei ore soleggiate permesse dallo Stato.
Maledetto Stato.
Tornai a riflettere sui miei mali mentre le ore scorrevano pigre e immaginavo il mio professore scandire le parole attraverso l’aula e miriade testoline chine di amanuensi intente ad appuntare tali fuggevoli perle di saggezza.
Le cose così non funzionavano, bisogna reagire, mi dissi.
Perciò mi rimisi il pigiama e tornai a dormire.
Sognai di essere morto in una bara senza legno ma solo vetro, la gente mi fissava e rideva, perché ero morto. Ma io intanto pensavo: ridete, ridete coglioni, intanto io sono morto, grazie al cielo. Ora, tutte le sofferenze, le piaghe e le responsabilità della vita ve le sorbite voi. Per esempio questa bellissima bara in vetro soffiato di Murano chi credete la pagherà? Io no di sicuro, ho prosciugato il conto prima di morire.
Mi svegliai con un sentore di morte. Non era colpa del sogno, era colpa del mio secondo coinquilino, perché pare che il suo animale domestico (un alce-furetto) non sapesse nuotare, perciò, affogatosi nella piscina, il mio geniale coinquilino lo aveva steso in balcone a marcire al sole. Avevano superato il limite, non potevo vivere in questo modo. Feci una chiamata e mi venne a prendere il mio fido compare e amico Dennis, detto Valeria, perché sì, vuole essere chiamato così, e no, non è transessuale, si veste da uomo, sì, però niente. Valeria, punto. Quindi insomma Valeria sei arrivata? Sì, sono qui sotto, perfetto, salto.

Saltai e non era lì sotto.

Non mi feci troppo male, abitiamo al primo piano, però la botta sicuramente non era piacevole, senza contare che se si rimane più di tre minuti, quindici secondi e trentatré decimi stesi sul suolo gelato si va in ipotermia a causa dell’atmosfera freddissima.
Non fui carino con Valeria, lo tempestai di insulti.
Dai scusa, mamma mia, cosa vuoi che sia.
Cosa vuoi che sia?! Sono rimasto lì in mezzo per due minuti, cinquantanove secondi e trentadue decimi, avrei potuto morire.
Adesso non esagerare, ero proprio lì, è che di solito ci metti un eternità a uscire. Poi non facciamone una tragedia insomma dai, ti sei scaldato o no? Ho acceso l’aria calda.
Sì, sì, mi sono scaldato. Ma alzala un po’.

Dennis, cioè, Valeria, è un ragazzetto biondo con un caschetto sempre pettinato e con un paio di occhiali spessi dalla montatura scura. Sembra la versione sfigata e cicciottella di uno dei Beatles. Indossa sempre magliette delle Winx e, per questo motivo, a scuola gliene davano tante, ma tante. Per rimediare decise di farsi crescere una lunga barba scura e appuntita che ora gli arriva fino all’ombelico. Con questa pare abbia assunto autorità, non me ne capacito come, ma lui giura di sì.
Flora sorridente su sfondo giallo da dietro il barbone mi suggerisce che oggi è giovedì. Al giovedì Valeria sempre indossa la maglietta con Flora, la sua Winx preferita. Non chiedetemi il perché, forse perché è mulatta, che ne so.

Lentamente sfiliamo per le vie bianche e ghiacciate con il propulsore di Valeria.
Mentre entriamo in università, si aggiusta gli occhialoni e mi domanda:
Allora, l’hai trovata questa equazione? Mi volto infastidito e lo fisso torvo.
Lui si liscia i baffi compiaciuto. Lo immaginavo, dice.
Mi sfotti per caso?
No, no per carità, ma ho conosciuto un tipo.
Che tipo?
Un tipo, che potrebbe aiutarti, un ingegnere, uno che ci capisce di queste cose.
Diamine, Parla maledetto! Quasi gli salto addosso.
Il punto è …, si ferma, si sfila gli occhiali e si massaggia gli occhi con le dita. Chiaramente sta giocando con la mia pazienza, ma io continuo a fissarlo immobile. Non è così semplice, lo dobbiamo rapire.
Rimango impietrito. Dobbiamo rapire un ingegnere? Scandisco trattenendo a stento il fuoco che vorrei sprigionare dalle mie fauci per incenerirlo.
Sì ma lui non è un ingegnere qualsiasi, capisci, questo tipo è …, si gratta la barba nervoso, poi mi si avvicina e mi sussurra nell’orecchio: … è il tipo di cui mi sono innamorato.

Ritorneremo sulla questione del rapimento più avanti, ora vi basti sapere che quel giorno non rividi più Dennis, o Valeria che dir si voglia, e mi avviai ad ascoltare la mia lezione, il mio appuntamento quotidiano con la conoscenza e la saggezza.
Il problema più grande che si presentò nel momento dell’ingresso in aula non era tanto lo spiccato ritardo o la mia totale mancanza di conoscenza della materia, ma piuttosto il cosiddetto Fattore Disturbante.
Il Fattore Disturbante è la mia maniera di definire la presenza di ragazze altamente attraenti che influiscono sulla mia sanità mentale. È difficile non perdere il controllo, riducendosi a primati che si battono il petto e mostrano il turgido fallo emettendo grugniti, di fronte a una così forte presenza del Fattore Disturbante. Di solito siamo due o tre i maschi che cercano di diventare gli alfa del gruppo, questo perché il maschio alfa ha il diritto di accoppiarsi a piacere con tutte le femmine del branco. Purtroppo, in questo caso, i miei sforzi di diventare l’alfa furono vani di fronte alla superiorità degli altri elementi. Non essendo riuscito a fregiarmi di tale titolo, mi sono deciso ad abbandonare il branco perché incapace a sottostare all’autorità degli altri maschi del gruppo, questo mi ha marcato dell’infame titolo di Lupo Solitario. A ogni femmina del branco e assolutamente proibito intrattenere qualsivoglia tipo di rapporto con un Lupo Solitario (come il povero sottoscritto), che sia riconducibile ad uno scambio di liquidi corporali o ormoni, pena l’uccisione, o peggio, l’allontanamento dal branco.

Insomma, è chiaro che con tutte queste dinamiche interne al branco, era difficoltoso prestare tutta la mia attenzione al contenuto della lezione, alle parole che come oro colato uscivano dalla bocca del professore e lui, con magnanimo spirito ci donava a noi tutti, affinché ne facessimo buon uso nelle nostre miserabili vite.
Ed è qui che torniamo all’inizio della nostra storia, dove il professore scandisce la frase: “Oggi nella nostra lezione parleremo di un eminente personaggio, colui che fuggì da questa vita miserabile e senza scampo…” e io rifletto sui mali che mi affliggono senza dare ascolto. Proprio in quel momento accadde che la mia vicina di posto (una bella leonessa dalla chioma riccia e nera come una notte d’estate) si volse verso di me con occhi che sembravano verdi smeraldi nascosti nel fondo proibito e meraviglioso degli oceani. Sussurrando con morbide labbra levigate e tratteggiate da una dea, mi disse: … questa vita così miserabile e così senza scampo che ormai siamo addirittura capaci di riconoscerlo e completamente incapaci di renderci realmente liberi. Quindi la leonessa si alza e percorre lentamente le scale e, quando arriva in fondo, si rivolge al professore parlante e sentenzia: Lei è un grande stronzo. Apre la porta e se ne va, senza neanche voltarsi.
Ed era vero, quel professore era un gran stronzo.

Quell’incontro mi aveva allibito e avevo capito che qualcosa nell’ordine del mondo era cambiato, era cambiato per sempre.
Uscì vagando dall’aula immerso nei miei liquami di pensieri, e la città, così viscida e sporca, quella città mi ingoiava. Mi persi tra le vie fredde e piene di dolore e storie che non possono essere raccontate. Erano strade che mi affascinavano e mi facevano perdere il senso della vita ma… sempre quel ma… ma avevo nostalgia di quel sole, di quel cielo così azzurro da far male. Il cielo che avevamo là, in quel tempo e in quello spazio in cui fui felice. Non potevo fare a meno di pensarci, la mia mente correva sempre a quei ricordi e non facevo altro che chiudermi in essi per sopravvivere all’opprimente susseguirsi dei giorni.
Questa realtà non mi appartiene, pensavo tra me e me, per tornare ad essere felice devo tornare là, in quella dimensione differente e per farlo devo riuscire ad aprire un varco spaziotemporale.
Ero fiducioso, quella ragazza aveva cambiato qualcosa, la struttura della realtà si era incrinata e aveva cambiato percorso. Potevo trovare la maledetta equazione.
Mi fermai di scatto, interrompendo il flusso di pensieri, non sapevo dove fossi finito.
Alzai gli occhi al cielo, le sei ore di sole stavano per scadere, il cielo stava imbrunendo, ed era grigio, così maledettamente e fottutamente grigio polvere, uniforme. Il sole stava per abbandonarci e lasciare il posto alle tenebre fredde e assassine. Dovevo trovare un riparo, e avevo esattamente, alzai la manica per controllare l’orologio, tredici minuti e quarantadue secondi per trovarlo, prima che l’oscurità divorasse i vicoli e i poveri cristi rimasti imprigionati tra il ghiaccio e le stalattiti pendenti lunghi i cartelli. Ovviamente nessuno aveva dubbi che la colpa di questa situazione era dello Stato.
Maledetto Stato.
Imprecando al freddo, allo Stato e alla vita intera probabilmente, avevo varcato una grossa porta che recava un insegna: biblioteca. Mi trovai di fronte ad un silenzio tombale e tanti piccoli esseri chiusi nella loro bolla di solitudine, intenti nelle loro attività presso le scrivanie. La scena era a dir poco inquietante, ma non volevo sentirmi estraneo, perciò mi sedetti nel più totale silenzio e mi immersi nella mia personale bolla di solitudine. Tirai fuori dalla borsa il mio quadernino nero, contenente tutte le equazioni tentate e fallite, sfogliai le pagine e un senso di nausea mi assalì, lo richiusi e sospirai: non potevo ora mettermi a provare nuove equazioni, era aldilà delle mie possibilità.
Guardando intorno a me la marea di teste chine, cieche e sorde al mondo esterno a loro stessi, ripensai alla ragazza riccia, lei sì che era fuori dal Branco!
Una vera Lupa Solitaria.
La mia pazienza durò poco, mi alzai dal tavolo e mi diressi verso il bagno e incrociai proprio davanti ai lavandini smaltati di bianco, la mia peggior amica: Sevilla, detta anche la mia più odiata amica: una stronza a cui volevo un gran bene. Se io sono bipolare come una batteria stilo AA da 1.50 volt, Sevilla è una cazzo di svitata coi fiocchi. A vederla non si direbbe, piccolina, graziosa, con un visetto tondo tondo incorniciato da una frangetta di capelli lisci e neri. L’unica cosa che tradisce la sua follia sono i suoi occhi. Occhi grandi e castani, leggermente incavati e contornati dalle immancabili lunghe occhiaie, come a dire: “Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare …”
Mi lavavo le mani e la vidi apparire nello specchio, che usciva dal cesso.
Ciao Sevilla.
Ciao. Ti vedo diverso, hai percepito di nuovo che l’ordine del mondo è cambiato?
Feci una smorfia. Sei sempre la solita stronza tu, invece.
Lo so grazie, mi disse inarcando le sottili sopracciglia nere.
Mi accompagni a casa con il tuo propulsore? Mi sono rotto il cazzo di stare qua.
Va bene.

Mentre avanzavamo lenti tra le nebbie e le stalagmiti in mezzo alla strada, Sevilla mi disse: Sai perché vado nelle biblioteche? Perché mi piace importunare le persone che studiano. Lo sai che una volta le biblioteche erano piene di libri e storie? Storie! ti rendi conto? Migliaia e migliaia di storie che attendevano solo di essere lette. Ora ci sono solo persone e ogni persona anche è una storia, solo più difficile da leggere. Ecco insomma, io vado là per leggere le persone.
Questo è interessante, affermai pensieroso, ma che progetti hai per stasera? Non posso soffrire di passarla nuotando in casa con i miei coinquilini.
Lei si volto stupefatta, Nuotando? Non mi dire che hanno di nuovo cercato di trasformare la casa in piscina, esclamò divertita.
Sì, questa volta ci sono riusciti, è per questo che indosso il costume da bagno, e slacciai i calzoni per mostrarlo.
Lo sai che tirarti giù i calzoni non è considerata una tecnica di corteggiamento adeguata, disse con aria furba.
Sospirai e volsi gli occhi al cielo, sempre le stesse battute.
Sempre le stesse battute da anni, Sevilla.
Che vita grama.

Dopo cena, Sevilla tornò a prendermi e ci dirigemmo verso uno dei locali che conosce solo lei e in cui solo lei riesce farmi entrare, questo si trovava in fondo a un vicolo freddo come l’abbraccio di un morto e che puzzava di piscio. Ci fermammo di fronte ad un enorme porta rossa. Non c’era nessun insegna, niente, solo una porta rossa. Guardai Sevilla interrogativo e lei mi sorrise maliziosa di rimando.
Bussammo alla suddetta porta e ci venne ad aprire un uomo che mi arrivava alle ginocchia, ma che nonostante ciò sembrava il tipo di persona con cui è meglio non trovare da discutere. L’ometto ci squadrò da capo a piedi e poi fece una smorfia, Sevilla gli mostrò una tessera bianca e lui si fece da parte per farci entrare.
All’entrata, nel corridoio, faceva un caldo d’inferno, era buio e si vedevano poche luci rosse brillare dall’interno della sala. Sevilla si sfilò il cappotto con fare da gatta. Portava un leggero vestito nero che le arrivava a metà coscia, aperto sulla schiena e davanti fino all’ombelico, facendo intravedere le squisite forme dei seni. Intravedere, è un eufemismo. Mi sorrise di nuovo sensuale e si avviò di fronte a me ancheggiando come un puma, si sapeva muovere la ragazza, lo sapevo già, ma ugualmente un sussulto mi scosse da capo a piedi. Maledetti istinti da primate.
La serata si stava svolgendo sotto lo mio sguardo anziano e stanco, il posto era una gabbia di matti, ma la musica ti entrava dentro e non ti faceva più fermare, buio e luce si alternavano senza sosta, scoprendo una marea di volti provenienti da un’umanità misteriosa e interessante. Un’umanità strana e emarginata. Come noi due, un’umanità tormentata.
Come ho già detto Sevilla sapeva muoversi, ma proprio bene, e mi si strofinava addosso facendo le fusa, guardandomi con quei grandi occhi castani che tradivano il male interiore. Si muoveva e mi accarezzava e mi guardava. Quella sera Sevilla era la regina Cleopatra in persona. Era bellissima.
Ma l’aria non era satura degli odori che preferivo. Decisi di ubriacarmi. C’era stato un tempo che apprezzavo gli odori speziati e delicati, i piaceri che ti avvolgono e ti fanno sognare. Ora non più, ora mi piaceva stordirmi, la mia esistenza mi soffocava.
Quindi la presi per mano e tra le note che rimbalzavano nelle pareti ci dirigemmo in un angolo buio e tirai fuori dalla mia tasca a spazio ridotto le nostre bottiglie di alcolici mischiati ad altre schifezze. Ridemmo e scherzammo e poi andammo sul terrazzino a fumare una sigaretta. Lì il cielo oscuro si vedeva nella sua immensità e stavamo in piedi ottusi dall’alcool a tremare dal freddo che non sentivamo, a insultare gli altri che ci stavano accanto. Poi un tipo alle mie spalle decise di prendermi a pugni perché gli avevo versato per errore della birra sulla giacca, ma Sevilla gridò, lui si voltò verso di lei, incurante di me che assumevo la studiata posizione della Gru Castigante. Un’espressione di puro terrore si dipinse sul volto del tipo, balbettò le scuse ai suoi amici e fuggì in tutta fretta dimenticando il cappotto a terra. Osservai Sevilla, che fumava, buttando il fumo fuori con aria compiaciuta. Inizio ad avere paura, le dissi. Fai bene, rispose lei. Di nuovo quello sguardo malizioso da gattina sensuale. Era troppo: la baciai. A lungo, non ci staccammo. Poi la presi di nuovo per mano e ritornammo dentro l’inferno di luce, dove la musica ti imprigionava.

2.

Sevilla si dimenava come un anguilla, nuda e sensuale tra i miei pensieri annebbiati dal fumo. Così uscendo senza troppo fretta nei vicoli raggelati, la osservai infagottata nel cappotto e nella grande sciarpa, i suoi occhi risplendevano come perle scure e proibite, ma non m’illudevo affatto, erano gli stessi occhi da vipera di sempre. I nostri aliti si condensavano in nuvolette gelate, che cadendo al suolo si rompevano in mille pezzi, emettendo il rumore come di piccoli scoppi. L’ordine del mondo era mutato quella sera, e se ne stava accorgendo anche lei.
Come seguendo un piano preordinato ci trascinammo tra i vicoli della città, attendendo un’alba che stentava ad arrivare. Ero ormai dimentico della luce del sole da diverse settimane, diversi mesi, forse anni, tutto ciò che potevo ricordare era il grigio cielo a rinchiuderci in una gabbia di tristezza e depressione.
Non parlammo, solo camminavamo a passo spedito, a volte si voltava e faceva ondeggiare i capelli neri lucenti e mi guardava con le sue perle, ma no, non mi illudevo affatto, le sue scarpe sbattevano forte sul selciato ghiacciato, facendo rimbombare il suono di mille zoccoli di altrettanti cavalli. Si strinse forte a me, che d’altro canto mi strinsi a lei, per non cadere e barcollando così (o danzando?) giungemmo ai piedi della grande chiesa che troneggia l’immensa piazza.
Lì, sulla scalinata, sedeva un piccolo ingegnere. Triste, i capelli schiacciati sulla testa. Risaltava fuori posto, come in un collage fatto male.
Mi bloccai di scatto.
Lo vedi quello lì, Sevilla?
Sì, certo che lo vedo.
Ecco, quel piccolo ingegnere è il nuovo amore di Dennis.
Il piccolo ingegnere alzò di poco la testa e ci osservò con spavento. Era sul punto di fuggire l’animaletto, già annusava l’odore di pericolo. Forse perché io ero già pronto con una grade rete in mano per catturarlo e rapirlo, come mi aveva suggerito di fare Dennis.
Ma Sevilla mi fermò prima che potessi agire, che cazzo fai? Gridò.
Niente, lo rapisco, è una storia lunga da spiegare.
C’entrano le tue maledette equazioni, scommetto.
Diamine, mi conosci troppo bene tu.
Ma ormai avevo perso l’attimo, il piccolo ingegnere si alzò allarmato e sgambettò via nell’oscurità. La preda aveva sbeffeggiato il cacciatore, troppo ubriaco per corrergli dietro, perciò gridai alcuni insulti rivolti alla sua persona che, però, si perderono nell’oscurità.
Sevilla mi guardò con sufficienza, poi mi prese per mano e lentamente tornammo ad avanzare nella nebbia, la città sporca e maledetta ci inghiottì.

3.

Era freddo, maledettamente freddo, così freddo che non si poteva più camminare, così freddo che ci dovemmo fermare. Mi appoggiai, vomitai, mi voltai verso Sevilla: mi guardava dolce, caddi nei suoi occhi scuri e ne riemersi saziato, lei mi accarezzò lentamente la guancia e mi sorrise, mi prese la mano e pose qualcosa al suo interno. Non me ne resi conto, stavo perso dentro i miei pensieri.
Finché non mi accorsi che se ne era andata, come volatilizzata.
Mi guardai attorno: niente, solo nebbia, gelo e oscurità.
Dischiusi lentamente la mano e dentro c’era una tessera, bianca, con dietro una banda magnetica. La rigirai a lungo, poi notai che controluce si disegnava l’ombra di una chiave: era la tessera che aveva mostrato per entrare nel locale.
Sentivo il sapore acro del vomito nella bocca, ma perlomeno ora la testa mi girava meno. Sevilla maledetta, mi aveva abbandonato chissà per quale perverso motivo.

Respirava lentamente.
La ammiravo, mentre il suo petto dolcemente si alzava e si abbassava.
Sentivo l’aria calda uscire dal naso con respiri leggeri e silenziosi.
Guardavo la curva della bocca, piegata in un sorriso rilassato, e le palpebre adagiate.
Respirava.
Sentivo l’odore acre del suo sudore, ma non mi infastidiva. Era un odore che mi ricordava il muschio bagnato di un acquazzone estivo. Mi riportava ad un passato selvaggio, di grandi alberi e oscurità piene di odori suadenti, un passato mai vissuto ma ricordato, nelle pieghe dei meandri dell’inconscio. Il suo era un odore che scavava a fondo, fino a colpire la mia essenza più pura, e più nascosta.
Respirava.
E dolcemente l’accarezzavo, facendo scorrere le mie dita lentamente, molto lentamente sulla sua schiena. Le sussurrai all’orecchio: il tempo si è fermato. Si è fermato solo per noi due, per permetterci di sentire la vita, di sentire il respiro più profondo e la carezza più lieve.
Lei aprì gli occhi, e di nuovo mi persi dentro di essi.

Una luce mi scaldava la faccia.
La luce del sole, mi dissi, uscendo dal sogno. Grazie a dio era un sogno, pensai grato: stavo per cadere in un abisso infinito, precariamente aggrappato a un grosso divano volante.
Che sogno di merda.
Però ancora tenevo gli occhi chiusi, assaporavo quel calore sul volto. Com’è piacevole… il sole… da quanto tempo. Aspetta, un momento. Sole, da quando è tornato il sole?
Aprii gli occhi di scatto e mi alzai rapido. Solo per poi ributtarmi all’indietro gemendo dal dolore: mi faceva male tutto, soprattutto la testa. La testa, la maledizione dell’umanità.
Tentai di nuovo, lentamente.
Ero disteso su di un divano rosso, scomodissimo, di fatto mi aveva quasi divorato per intero: ero mezzo sprofondato in esso e sopra di me avevo qualcosa come una montagna di coperte. Di fronte a me brillava uno di queste stufette elettriche che ti sparano addosso la luce di mille soli per scaldarti fino al midollo osseo.
Intorno a me, un piccolo salotto spoglio, c’era anche una vecchia televisione scassata e una moquette ricopriva tutto. Una moquette lercia. Intuii fosse una casa di studenti o drogati, come me.
Mi alzai e spensi il diabolico scaldino che bruciava come l’inferno.
Mi resi conto che barcollavo, forse avevo la febbre.
Attraversai la porta della sala, ero scalzo, chi mi aveva tolto le scarpe? Passai per un stretto corridoio ricoperto di moquette e lo seguì fino a giungere a quella che sembrava una cucina. Quando entrai la cosa che per prima mi colpii furono le piante, che erano di fronte le grandi finestre, sembravano vere. Mezze morte, vabbè, ma piante vere. La seconda cosa che mi colpii fu la ragazza che sedeva al grande tavolo di legno sorseggiando da una tazza fumante: aveva una chioma di ricci scuri e leoneschi, era molto bella.
La riconobbi all’istante, era la leonessa dell’università, la Lupa Solitaria.
Tu…, provai a balbettare.
Ti ho trovato mezzo assiderato lungo la strada, svenuto a terra, mi interruppe lei.
Ah.
Ti ho un po’ salvato la vita, disse inclinando la testa e sorridendo.
Ah, g-grazie.
Devi avere una gran febbre, per cui siediti, prima di crollare a terra di nuovo. E mi porse una sedia.
Ero confuso, dalle nebbie della febbre e dalle coincidenze.
Scusa, una domanda, riuscii ad articolare.
Dimmi pure, disse lei.
Ma quelle piante sono vere?
Lei ridacchiò. La sua risata era strana.
Sì sono vere, anche se sembra assurdo. Vuoi che ti faccia un tè?
Sarebbe fantastico, sì.
Si alzò e mettendo il bollitore sul fuoco continuò a parlare. Ormai piante vere se ne vedono poche, capisco il tuo stupore. E ti starai chiedendo come diavolo ho fatto a farle crescere così tanto. Ebbene non lo so neppure io, semplicemente me ne prendo cura. Si mosse per la cucina e iniziò a frugare in un cassetto. Dove cazzo l’avranno messo … ah, eccolo! Estrasse un termometro. Insomma, fin da piccola mi è sempre piaciuto guardare mio papà che lavorava nel giardino, tieni misurati la febbre, disse porgendomi il termometro, poi quando le piante hanno iniziato a morire tutte, ho tenuto per me qualche seme.
Ma che piante sono? Chiesi mentre mi sistemavo il termometro sotto braccio.
Allora, quella lì è un geranio, è un fiore, l’altra, quella piena di spine, è una pianta grassa, tipo un cactus ma non so bene come si chiama. Sollevò il bollitore dal fuoco e versò l’acqua calda in tazza, poi ci aggiunse una bustina e me la porse, mi sorrise con dolcezza. Notai i suoi occhi, verdi e profondi. Occhi da cerbiatta, ma anche da pantera, mi dissi.
Tu sei una Lupa Solitaria, vero? Domandai all’improvviso.
Subito mi pentii di averle fatto quella domanda, perché prima di parlare non penso?
Lei mi guardò stupefatta. Poi sorrise un po’imbarazzata.
Sì, come fai a saperlo?
Perché anche lo sono anche io, pensai.

Era freddo. Maledettamente freddo.
Uscendo da quella casa calda e piena di luce ebbi la consapevolezza che non sarei tornato a casa mia quel giorno, probabilmente no.
Avevo bisogno di schiarirmi le idee.
Improvvisamente sentii girarmi la testa, il mondo intorno a me iniziò a scomporsi.
Mi ritrovai con la faccia a terra, proprio nel selciato davanti la porta dalla quale ero appena uscito. Ero svenuto?
Cosa era successo in casa della ragazza? Non riuscivo a ricordare.
Ma come diamine si chiamava?

Mi chiamo Sara, disse e sorrise. Feci per alzarmi bofonchiando alcune parole di ringraziamento, chiesi dove fossero le mie scarpe. Volevo uscire ma non sapevo dove cazzo erano le scarpe.
Lei sorrise di nuovo.
Ma questa volta era un sorriso strano, quasi maligno.
Le ho io. Non te le do.
Era strano, tutto molto strano.
Perché? Chiesi quasi imbarazzato.
Il suo sorriso si fece ancora più maligno. Perché altrimenti te ne andrai, disse.
Vuoi che rimanga?
Sì, per sempre. E si avventò su di me.
Pensavo volesse ammazzarmi, ma voleva solo scoparmi: mi prese per mano e mi portò nell’altra stanza, nella sua camera da letto. Appeso alla parete c’era un telo arancione con un disegno tribale molto bello, un volative, sembrava.
Cos’è?
Una fenice, disse lei.
Mi voltai ed era sotto le coperte, i vestiti erano ammucchiati per terra.
Ah.
Era attraente, molto attraente, ma sentivo che qualcosa non andava.
Scusami, io … non posso, balbettai.
Uscì veloce in corridoio, diretto alla porta di casa, scalzo. Stava diventando tutto troppo strano, e lo diventò ancor di più quando arrivai davanti alla porta di casa. C’era un uomo, aveva in mano le mie scarpe e me le sventolava davanti con antipatia, era vestito da sera, con una giacca lucida e un papillon rosso. Continuava a sventolarmi le scarpe davanti al naso, sorridendo. Non me le restituiva e non mi lasciava passare.
In quel momento vidi con la coda dell’occhio che dietro di me stava arrivando qualcuno, Sara, in mutande e reggiseno, che camminava lentamente sulla moquette. Fui preso dal panico, qualcosa mi diceva che era tutto sbagliato, che se mi avesse raggiunto Sara non sarei più uscito da quella casa. Mai più. Cacciai la mano in tasca con foga e ne estrassi la tessera bianca che mi aveva dato Sevilla. La piantai in faccia al tipo sorridente. Quello subito divenne serio e con fare elegante mi offrì prima le scarpe e poi mi aprì la dannata porta. Mi fiondai fuori e mi infilai le scarpe mentre scendevo rapido le scale.

Ci sono due tipe di Menzogne in questo mondo freddo e grigio. La prima è quella del silenzio, la Menzogna Del Silenzio è la peggiore, è quella che ti taglia le ali e ti mette con la schiena a terra. La seconda è la Menzogna Della Libertà, quella che invece le ali te li incolla e ti spinge in su, in su. Ma è pur sempre una menzogna.
Questa era una Menzogna, era una Menzogna di Sevilla. Mi mesi a sedere per terra, sul selciato, tenendomi la testa tra le mani, ero svenuto appena uscito dalla casa.
Perché ero fuggito? Perché ero convinto che tutto fosse stato solo un sogno impiantato. Impiantato da Sevilla, probabilmente.
Cosa sono i sogni impiantati? Dovete sapere, cari lettori, che in questo mondo grigio e freddo le persone non sognano più, solo dormono e lentamente muoiono, ma hanno ancora bisogno di sognare.
Hanno bisogno della Menzogna che metta loro le ali.
Il sogno impiantato è una Menzogna, una Menzogna Della Libertà, una droga che si scioglie nell’acqua, che usa le tue emozioni inconsce per creare un momento di realtà alternativa. È proprio come un sogno, con una unica differenza: se non sai riconoscerlo ne potresti rimanere imprigionato per sempre. Io odio i sogni impiantati, e odio ancor di più chi me li impianta, perché non ne ho bisogno, ancora mentre dormo riesco a sognare, incubi, certamente, ma almeno è qualcosa e non voglio perdere quel qualcosa. Ero arrabbiato. Me la aveva impiantato Sevilla, ne ero sicuro, mi aveva sciolto la droga nella birra.
Mi rimisi in piedi, ancora mi girava la testa e mi doleva il naso, per la botta. Alzai gli occhi al cielo, era grigio, come al solito, in giro non c’era nessuno, solo una vecchia sotto una montagna di vestiti. Rientrai nel palazzo.
Feci le scale lentamente, guardandomi intorno e accertandomi che ogni cosa fosse reale. Arrivai al terzo piano e bussai alla porta dell’appartamento dal quale ero uscito poco prima.
La porta si aprì e comparve il viso di Sevilla. Semi addormentato. Si strofinò i begli occhi scuri e sbadigliò. Aveva i capelli disordinati e indossava solo una grossa t-shirt che le arrivava fino alle ginocchia, immaginai sotto non avesse nulla. Mi sorrise, in quel modo che sa fare solo lei. Che succede? Chiese sorpresa.
Il sorriso mi aveva già tolto quel poco di coraggio che avevo raccolto, ma concentrai la mia rabbia in un ghigno aggressivo.
Che succede? Che succede lo chiedo io.
Lei sospirò, vieni dentro, disse.
Dentro ogni cosa era differente, era la casa piccola e sporca di Sevilla.
Entrammo nella cucina stretta e buia e ci sedemmo.
Che diavolo succede Sevilla? Mi hai ficcato una droga del sogno nella birra?
Lei sospirò triste, No, non sono stata io.
Ma, allora chi… e stanotte, cosa diavolo è successo stanotte?
Sevilla alzò lo sguardo e mi guardò seria.
Stanotte siamo stati insieme, abbiamo scopato.
Il suo sguardo mi faceva capire che non era facile per lei dire quelle parole, che c’era qualcosa in ballo. Rimasi pietrificato.
Siamo stati insieme, ed è stato bello, continuò e lessi speranza nei suoi occhi.
La cosa non era facile, c’era stato un accordo tra me e Sevilla, un accordo millenario, un accordo da cui probabilmente dipendeva l’equilibrio del mondo. Noi eravamo amici, non potevamo fare sesso.
Ma l’equilibrio del mondo si era rotto, spezzato per sempre.
Mi alzai di scatto, spaventato, iniziai a camminare avanti indietro nella cucina.
Sevilla esplose: Io, io lo sapevo cazzo, lo sapevo che avresti reagito così. Non so cosa dirti, non so come sia successo, quel bastardo di un piccolo ingegnere ci ha drogato, non so quando, né come, solo so che quando sono uscita dal sogno, ecco, ero nuda, sì, ero nuda accanto a te, e tu hai iniziato a baciarmi. Non so che dirti, veramente, io sono uscita dal sogno prima di te, non so nemmeno il perché solo so che… solo che è stato veramente bello, mi capisci? E … e in un certo senso il fatto di uscire prima del sogno fa di me colpevole, l’ho capito quando ti sei svegliato e con gli occhi sbarrati ti sei fiondato fuori di casa. Io… io non sapevo che fare e, mi sono svegliata felice, ecco. Felice, dopo tanto tempo, e adesso… ho paura che tu te ne vada per sempre e non voglia più vedermi.
Mi guardava, spaventata, speranzosa. In attesa. Gli occhi lucidi. Quei bei occhi, profondi e segnati. Lucidi. I capelli disordinati lunghi e così neri, neri come il mio cuore in quel momento. Non sapevo cosa dire, non sapevo cosa fare.
Io… io non ricordo Sevilla, non mi ricordo nulla.
Lei annui triste. Sì, capisco, mormorò, e chinò la testa.
Io, Sevilla, lo sai, devo trovare quelle equazioni, devo andarmene capisci? Potrò essere felice di nuovo solo se riuscirò a tornare là… e adesso che l’ordine del mondo è cambiato sicuramente potrò…
Tu e le tue maledette equazioni! Gridò Sevilla interrompendomi, si alzò in piedi con le lacrime a rigarle il volto. Tu e le tue cazzo di equazioni! Quando capirai che non ha alcun senso? Che la tua vita è una e non puoi scambiarla come se fosse una figurina? Tu sei qui, vivi qui ed ora, ti costringi ad un vita infame e piena di dolore solo perché non sai vedere ciò che c’è di buono nel mondo che ti circonda!
Sevilla piangeva e mi guardava furibonda.
Tu non capisci Sevilla! Gridai di rimando. Non vedo niente di buono qui perché non ce n’è, perché è tutto corrotto e malato!
Qualcosa di bello c’è, c’è stato ieri sera tra noi due, sussurrò lei.
Io non ricordo nulla, risposi deciso.
Tu non ricordi perché non vuoi ricordare, perché preferisci rifiutare piuttosto che accettare, perché ti crogioli in questo tuo dolore esistenziale. Sai benissimo che non troverai mai quelle equazioni e se le troverai probabilmente morirai. Sei solo un codardo, hai paura di essere felice.
Sevilla mi guardava con durezza, mentre diceva queste parole. E le lacrime le scorrevano sul viso. Io ero sconvolto e arrabbiato. Mi voltai e senza dire una parola me ne andai.

4.

Il diavolo non era stato ma così felice nei suoi nuovi panni, nei panni di un piccolo ingegnere che scorrazza per la città come un ratto di fogna, spaventato, si muove nell’ombra, chino, i corti capelli neri schiacciati in testa. Lo si vede strisciare tra le ombre nei vicoli freddi e puzzolenti di piscio. Il piccolo ingegnere ha paura, paura di chi gli passa accanto, di chi lo guarda e di chi lo vuole catturare, soprattutto. Il piccolo, fetente ingegnere stringe a sé una borsa, la stringe al petto con maniacale ossessione, la nasconde, non vuole che le persone la vedano. Il piccolo e diabolico ingegnere ha paura ma sorride soddisfatto, anche quella notte hanno cercato di catturarlo, ma lui è riuscito a fregarli, quell’idiota con quella ragazza. Una ragazza che sembrava carina, proprio una bella gnocca, direbbero i suoi coetanei (ma il piccolo ingegnere non si esprime con questo linguaggio scurrile). Avevano cercato di acciuffarlo ed impossessarsi del suo prezioso tesoro, pensa il piccolo ingegnere e mentre pensa stringe più forte a sé la borsa. Il piccolo e malefico ingegnere ora quasi ridacchia, ma non ride mai del tutto, no, non lo fa, ridacchia diabolico, perché li ha fregati quei due, sissignore li ha proprio fregati, ha fatto bere loro della birra drogata, ha infilato nella loro bottiglia delle belle pasticchine di Menzogna e ha provocato loro un sogno impiantato. L’ingegnere ridacchia e ora accarezza la tasca con la scatola piena di pasticche. Sogni impiantati, che schifo, l’ingegnere lo dice, che schifo, ma poi alla notte prende una bella manciata di pasticche perché il suo sonno altrimenti è come una piccola e buia, silenziosa morte.
Il diavolo nei panni dell’ingegnere ora si infila in un vicolo più buio, un vicolo che odora di marcio e dolore. Qui è perfetto, pensa il piccolo ingegnere, si ferma, prende fiato e si accovaccia a terra. Non c’è nessuno qui, può allentare la presa sulla borsa, sul suo prezioso tesoro. Quanto piace all’ingegnere rimirare ed ammirare il contenuto della sua borsa, ovviamente quando è da solo, al sicuro, al sicuro da sguardi avidi e indiscreti. Il piccolo ingegnere quindi si siede a terra e estrae dalla borsa il suo prezioso contenuto, un grande pacco di fogli, contenenti l’equazione. L’ingegnere sfoglia le pagine scritte fitte fitte compiaciuto, ammira l’equazione che gli costò tanto lavoro e tanta fatica, finalmente sua. L’equazione con la elle maiuscola, l’equazione rivoluzionaria! Ora di nuovo l’ingegnere ridacchia, ma solo ridacchia perché non ride mai sguaiatamente il piccolo diabolico ingegnere, ridacchia immaginando un grande futuro di gloria e successo, apre la scatola delle pasticche e ne ingurgita una. Ha voglia di una Menzogna che gli metta le ali, di sognare in grande, un sogno impiantato, certo, ma pure sempre un sogno è, dice lui.

Dennis-Valeria aveva appena finito lezione e lisciandosi la lunga barba si chiedeva dove diavolo fosse finito il suo amico, non lo vedeva dal giorno prima, ed era strano, si incontravano tutti i giorni a lezione. Vabbè tutti i giorni forse no, ma era comunque strano che non si fosse fatto sentire. Riflettendo sulla momentanea scomparsa del suo amico, Dennis-Valeria cammina lungo il corridoio dell’università, affollato di studenti uscenti, entranti e ripetenti, prende le scale e arriva all’uscita, anch’essa affollata, ma di studenti fumanti. Dennis-Valeria continua a riflettere profondamente sulle sorti del suo amico, inizia a ipotizzare un omicidio, poi un suicidio, infine un’identità notturna segreta.
Batman? Lui?
Ma proprio nel momento in cui Dennis-Valeria sta trovando somiglianze incredibili tra il suo amico e il magnante Bruce Wayne, si arresta in mezzo alla strada. Le gambe di Dennis-Valeria, inserito il pilota automatico, lo hanno portato in un luogo sconosciuto.
Dennis-Valeria ora si trova in una strada sporca e buia, che puzza di piscio.
Dennis-Valeria non si spaventa e continua lungo questo vicolo, vede sfrecciare un ratto poco lontano, anche questo non lo spaventa e continua, finché non nota qualcosa poco più avanti: in ombra, tra vecchi scatoloni marciti e sacchi mezzi aperti della spazzatura c’è una figura umana, accovacciata, sembra.
Ora Dennis-Valeria, sì, è un poco spaventato, ma poi vede che la figura umana è distesa tra la sporcizia, quindi Dennis-Valeria sente riaffiorare il suo spirito umanitario e si chiede se non sia qualcuno bisognoso di aiuto. Si avvicina con cautela alla figura umana, sente come un verso, forse un rantolo. Solo avvicinandosi di più Dennis-Valeria scopre che non è un rantolo, è come una risata, un diabolico ridacchiare.
Dennis-Valeria ha un gran brutto presentimento.
Si fionda sulla figura distesa e gli prende il capo tra le mani: è lui, il piccolo ingegnere di cui si è innamorato. Il piccolo ingegnere è in preda ad un crisi ed ha una spuma biancastra che gli cola dalla bocca e ridacchia come un folle. Il suo viso è distorto da questo sorriso esagerato, diabolico, e gli occhi sono persi nel nulla. Dennis-Valeria lo scuote, cerca di rianimarlo, ma l’ingegnere non risponde agli stimoli. Dennis-Valeria piange e si dispera, gli accarezza il volto, sente che il resto del corpo è come abbandonato, capisce che si tratta di una overdose, tremando tira fuori il telefono e, con voce rotta dal pianto, chiama l’ambulanza.
Ora Dennis-Valeria ha gli occhiali appannati dal tanto piangere, prende in braccio il piccolo ingegnere e lo solleva, così lo porta in fondo al vicolo, alla luce del sole, come un ferito di una guerra immaginaria. In lontananza, sente giungere il suono stridulo delle sirene.

5.

Ero arrabbiato, furibondo, ma triste anche, addolorato. Cosa ne vuole sapere Sevilla, pensavo, cosa ne vuole sapere lei, io non ricordo, non ricordo nulla, sono stato drogato cazzo! E quelle parole, come si permette a farmi così male con delle parole.
Mi trascinavo per le vie in cerca di luce, ma non c’era luce, c’era solo questa nebbia che mi entrava nelle ossa e mi uccideva poco a poco. Sevilla era stata dura. Dura ed esplicita. Mi sentivo schiacciare sotto il peso della vita, mi sentivo morire ad ogni respiro, ad ogni passo e ad ogni sguardo. Faceva freddo, oh quanto faceva freddo! Il freddo ti entrava dentro e ti faceva sentire come una stalagmite dentro un frigorifero, congelato, fuori posto e rinchiuso.
Avevo bisogno di un propulsore per tornare a casa, ma ovviamente il telefono era scarico e non poteva chiamare Dennis. Quindi camminavo e camminavo, o forse strisciavo, non ricordo, non pensavo, solo sentivo. Sentivo di stare male, mi doleva dappertutto, mi doleva il corpo, assurdamente, non solo l’anima, perché sapevo che quello che aveva detto Sevilla era maledettamente vero, era verissimo, lo sentivo e la odiavo per questo.
Sevilla nasconde un cuore tenero in fondo? Ma io non ricordavo cosa era successo la sera prima, non potevo ricordare, ero drogato, vivevo nella Menzogna del sogno impiantato, anche se… anche se….
Mentre rimuginavo sui miei mali mi resi conto di essere arrivato nello squallido parchetto dei tossici, in alcune panche di legno sporche e abbandonate si raccoglievano persone anch’esse sporche e abbandonate, come me.
Mi sedetti in una panchina di legno e volsi la teta al cielo, esausto, dal troppo pensare, dal troppo rastrellare nella mia anima. Osservai il cielo sopra di me, il suo grigiore uniforme, depressivo, che mi era oramai tanto familiare e, tra le nuvole, intravidi una luce, una macchia di colore, quasi invisibile, ma c’era, era incredibile, c’era una piccolissima macchia di azzurro.
Azzurro, da quanto tempo non vedevo uno spicchio di cielo azzurro?

Respirava.
Respirava ed era bellissimo ammirarla, mentre dormiva, così, a pancia in su.
Ammiravo la dolce curva del naso, le labbra socchiuse e i splendenti capelli che le ricadevano sul viso, sparpagliati e arruffati, neri come l’inchiostro.
Adoro i suoi capelli, pensai, mi avvicinai al suo corpo caldo e la strinsi in un abbraccio.
Lei aprii gli occhi e sorrise e mi passo le sue labbra sulla fronte, sul naso, ed infine giunse alla mia bocca. Ci baciammo a lungo, la bocca era calda e la sua lingua aveva un sapore dolce.
Le mie mani corsero ai suoi seni, li strinsi e lei emise un gemito.
Un gemito di piacere.
Sfioravo la sua pelle calda e liscia, come un sasso levigato dal mare, ma anche morbida, così morbida che mi veniva voglia di morderla.
La sentivo fremere sotto il mio tocco.
Poi lei iniziò ad accarezzarmi la schiena, il petto, a toccarmi, con voracità, ma con delicatezza, sorrideva, mi baciava e mi mordeva. Mi sentivo sciogliere e mi sentivo bene. Mi sentivo bene dopo tanto tempo…
Mi avvicinai al suo orecchio e le sussurrai alcune parole.
Ti amo, Sevilla. Ti amo.

Spalancai gli occhi, un ricordo improvviso mi aveva attraversato la mente, come un flash. Mi presi la testa tra le mani, era la seconda volta oggi, che mi ritrovavo in quel letto, con quella ragazza… cosa mi sta succedendo, sto forse impazzendo? O quella ragazza era… il letto, i capelli neri come una notte d’estate e quegli occhi così belli e un poco tristi erano quelli di…
La verità mi colpì come un pugno nello stomaco, improvvisamente ricordai tutto.
… di Sevilla.
Mi alzai di scatto dalla panchina e ricominciai a camminare nervoso per le strade.
Aveva ragione, maledettamente ragione, io posso ricordare.
Ricordo tutto quello che è successo quella sera, ricordo quando ci siamo baciati, toccati, abbracciati, addormentati e poi di nuovo baciati e abbiamo scopato.
Sì, abbiamo scopato, poi ci siamo addormentati di nuovo e io la osservavo e la accarezzavo, finché lei gemendo non si è avvicinata a me e lì, sì, lì non abbiamo scopato, li abbiamo fatto l’amore, l’ho stretta a me e ho sentito che un brivido stava scuotendo l’intera terra. Era come un terremoto che scaturiva da noi due. L’universo, tutta la sua essenza, la potevo sentire dentro di me e potevo sentire lei, la dolce Sevilla, accanto a me. E i suoi occhi, dio i suoi occhi! Così profondi e così belli, che mi guardavano, mi esploravano e mi toccavano.
Fermai di nuovo il mio errare senza meta, ero finito in un vicolo oscuro, puzzolente, pieno di immondizia. Era una strada fetente, che suggeriva solo morte e rancidume, un vicolo che poteva essere la casa di un diavolo o, anche, di un angelo caduto, che in fondo sono la stessa cosa, quale diavolo non è stato prima un angelo?
Qualcosa mi spinse a proseguire in quel vicolo, ignorando il puzzo di piscio che ti raschiava i polmoni, una forza invisibile mi attraeva.
Il vicolo non era profondo e dopo pochi metri notai qualcosa sparpagliato a terra che non era immondizia, era una borsa rovesciata e, accanto, una risma di fogli sparpagliati a terra. Per qualche strano motivo mi chinai e iniziai a raccoglierli, erano un bel mazzo e iniziai a leggere cosa c’era scritto.
Formule, che buffo, sembravano proprio formule matematiche e… alcune le riconoscevo, sì, molte mi erano familiari… oh mio dio, non è possibile.
Iniziai leggere i fogli freneticamente, le mie mani tremavano dall’emozione: era lei, la stramaledettissima equazione! Non potevo credere ai miei occhi, continuavo a sfogliare le pagine ossessivamente, l’equazione che avevo cercato per tanto tempo!
Qualcuno era riuscito a trovarla, scriverla e stupidamente l’aveva abbandonata o persa, un equazione così preziosa…
L’equazione per creare varchi spazio-temporali.
Appoggiai la risma dei fogli a terra, iniziai a piangere dalla felicità e a gridare. Gridavo forte, gridavo di entusiasmo. Piangevo e gridavo: avevo trovato l’equazione, potevo finalmente andarmene, tornare in quel tempo e spazio in cui ero stato felice, potevo lasciare tutto, questa città schifosa e puzzolente, le chiacchere dei miei coinquilini ottusi, potevo lasciare il freddo, il grigiore, la nebbia, i propulsori e… e… avrei dovuto lasciare anche Sevilla.
Mi bloccai di scatto e ridivenni serio, lasciai scivolare a terra la risma dell’equazione, che si sparpagliò di nuovo tra la spazzatura.
Dovrei lasciare Sevilla… la cara e dolce Sevilla, Sevilla maledetta, Sevilla sensuale, Sevilla psicopatica… la Sevilla che amo.
Frusciando, i fogli si allontanarono da me, sospinti da un vento leggero. Li vidi alzarsi in cielo ed infine scomparire, perdendosi tra le strade.

6.

Ora, cari lettori, vi aspettereste un epilogo felice, di quelli che vi lasciano un sorriso sul volto, di quelli che poi ve li ricordate, perché sono finali felici, dolci, che vi scaldano il cuore e vi fanno avere speranza nel futuro. Lo avrete? Io lo vorrei, con tutto il cuore, vorrei correre a casa di Sevilla, saltarle addosso, abbracciarla, baciarla e dirle quanto la amo, vorrei essere felice, vorrei poter riuscire a fuggire da questa vita miserabile e senza scampo.
Dennis lo incontrai il giorno dopo, il piccolo ingegnere era all’ospedale, a causa di un overdose di Menzogne, Dennis lo accudiva e gli stava vicino, era preoccupato per le sue condizioni ma anche felice di potergli stare accanto. Mi disse che non c’era più bisogno di rapirlo, che il piccolo ingegnere gli era grato di avergli salvato la vita, che si stava innamorando di lui. Anche nelle sfighe, qualcosa di buono ne viene fuori.
E io? Io non ebbi il coraggio di correre a casa di Sevilla a dirle quanto la amassi, né ebbi il coraggio di inseguire i fogli dell’equazione, che lasciai volare sulle ali del vento.
Sconsolato, quel giorno presi la via di casa, incontrai uno dei miei odiati coinquilini che mi accompagnò con il suo propulsore ad aria cosmica. Ero triste, molto triste. Arrivato a casa presi le mie poche cianfrusaglie e i vestiti, misi tutto dentro una valigia e nella tasca a spazio ridotto, ero pronto per partire ed andarmene. Ero stufo di quel freddo, di quella tristezza, dell’oscurità e della malinconia che pervadeva ogni mio oggetto o azione in quella vita che ormai non mi apparteneva più. Non avevo uno scopo, non avevo niente, avevo solo il mio vecchio corpo stanco e miei pensieri a scavare una fossa profonda nella mia anima. Continuavo a sentirmi perso come un granello di polvere nello spazio. Salutai con un grazioso insulto i miei compagni di casa, che mi pregarono di buttare nella spazzatura il fetente alce-furetto marcito. Educatamente rifiutai e chiusi la porta alle mie spalle.
Di fronte a me c’era Sevilla.
Sevilla stava là, in piedi sul pianerottolo, i lunghi capelli neri racchiusi in una coda, i bei occhi castani erano rossi di pianto. Era bellissima, come sempre. Appoggiai la valigia a terra e lei mi abbracciò, la strinsi così forte da farle male, volevo che quell’abbraccio scacciasse tutto il dolore che era entrato dentro di me, volevo che la forza dei nostri corpi risplendesse di una luce immensa. Mi sentii scaldare l’anima e il cuore e mi sentii bene, iniziai ai piangere come una fontana e a balbettare parole di scusa.
S-scusa Sevilla, non ne ho avuto il coraggio.
Ssh, non importa, rispose lei, sempre stretti in quell’abbraccio.
Io…io non me lo merito, scusa se ti ho fatto del male.
Non importa, l’importante è che siamo insieme ora, promettimi che non mi abbandonerai mai più.
Non ti lascerò mai Sevilla, mai più.

Io non ebbi il coraggio di correre da lei, ma lei lo ebbe, oh sì, ebbe un gran cazzo di coraggio a tornare a prendere questa vecchia carcassa che si sentiva inutile come un cavatappi ad un festa di astemi, non smetterò mai di ringraziarla per questo. Sevilla venne da me e mi portò via con sé, lontano, in un posto bellissimo, dove il cielo è azzurro splendente e c’è una luce bellissima. Un posto ancora più bello di quello dov’ero stato felice, di quello in cui volevo tornare aprendo un varco spazio temporale. Quel posto non era più bello perché il sole lo illuminasse di più o perché c’era una vista mozzafiato, che ti faceva sentire più leggero solo con uno sguardo, no.
Quel posto era meraviglioso perché c’era Sevilla accanto a me.
Ma questa è un’altra storia.