Avventure di un Onironauta Clandestino, ovvero: Apologia di un piatto rotto.

Respira cazzo, respira.
Si rivolta sulla schiena, il sangue che sgorga rapido dalla ferita.
Urla e stringe i denti, Respira porcodio! Che cazzo fai!
Il sangue mi imbratta le mani, le braccia e i capelli.

“Apologia di un piatto rotto, ovvero le Avventure di un Onironauta Clandestino.”

Il piatto si è rotto, lo vedo chiaramente, i pezzi non vanno più al loro posto. Si è rotto per sempre, lo capisco. Non posso tornare indietro, rincollarli, non posso.
Fa paura, fa paura da morire. Dove sono ora? Chi sono?

Respira, mordi questo, dai non smettere di respirare per nessuno motivo, se smetti sei morto, non lo capisci?
Un altro grido. Lo calmo, gli prendo la testa tra le mani. Lo so, fa un male della madonna, lo so ma non smettere di respirare cazzo. Lascia che l’aria entri nei polmoni, ecco così… piano, piano… non smettere, ecco… bravo…
Piango forte, lacrime amare cadono e si mescolano con il sangue
Non mollare dico, ma non serve, volta gli occhi dall’altra parte, l’ho perso, penso.

Dio basta ti prego dio bastAaaaaaaaaargh. Fa male dio che male. Dio, dio ti prego portami viAAAAARGH. ORA ADESSO TI PREGO! Ssssh eccolo eccolo mi parla, cosa dice? Cazzo non sento un cazzo. Sangue sangue dappertutto. Mi dice di respirare. Respiro ok respirARRRRRRRRRGGG. CAZZO BASTA VATTENE. Uff ufff, che fa mi guarda dritto negli occhi. Che cazzo vuoi? sì… sì… respiro…. inspiro…. espiro…. SANGUE CAZZO IL MIO SANGUE, LO RICOPRE CAZZO. Dio! Sì, hai ragione… respirarAAAAAAAARGGGH BASTA! Basta lasciami in pace, lasciami morire in pace. Dio dio ti prego portami via ora ora adesso, fallo smettere fallo smettere ti prego. Fallo smettere di far male, fallo smettere di parlare basta ti prego.

Piange, sta piangendo, le lacrime cadono e si mischiano con il sangue. Sono anni che non piango, io sto piangendo ora?
L’ho perso, l’ho perso, se ne è andato. L’immagine scompare, lascia posto a qualcos’altro.

Piove a dirotto, piove che dio la manda giù. L’autobus è partito, cazzo. La borsa sopra la testa per ripararmi dall’acqua, l’ho perso. L’ho perso.
No. Mi chiamano, chi è? Un mio amico, mi pare, mi sta chiamando. Che cazzo ci fai lì? Dai che piove! Corre verso l’entrata dell’autobus.
Ma non è un autobus, è una stazione del treno.
Entro io per primo. Fa caldo ed è tanto accogliente. Ci sono già stato, lo sento. È un luogo abituale da sogno. La vecchia stazione, con l’ometto baffuto della biglietteria. Vado alla biglietteria. “Ehi ometto baffuto”, lo chiamo.
L’ometto non c’è, parla da un tubo che viene su dal pavimento. “Che c’è?”, la voce esce dal tubo, come quei cosi che si usavano per parlare nei vecchi vascelli tra i vari ponti. Solo che è più piccolo, tipo un tubo dell’acqua.
Niente, probabilmente non ti ricordi di me, con la miriade di persone che passano di qui, ma io sono venuto qui una volta con un mio amico. E una ragazza… credo… cazzo non ricordo nulla… comunque, belli questi dolcetti che hai fatto”. “Grazie, ma che vuoi?”
Un braccio meccanico che viene giù dal soffitto intanto sta impastando un enorme pasta per il pane, più alta di me. L’ometto baffuto fa anche il panettiere, perché si sa, gli onironauti arrivano di mattina presto, e sono affamati. “Niente” rispondo, volevo presentarmi. “Ah potevi dirlo subito”, dice l’ometto baffuto con i capelli ricci uscendo da una porta laterale. Mi da la mano. “Tommaso, piacere”, dico, scuotendola con fermezza ma non troppa.

Quindi la scena cambia, mi sono fermato troppo.
È duro il mestiere di noi onironauti. Non fai in tempo ad abituarti a qualcosa che questa già se ne va lasciando il posto a qualcos’altro.

Sono in una casa, la casa di chi? Sembra una casa bella, arredata con mobili nuovi di zecca. C’è una festa. Sembra un dormitorio. Però io finisco in una camera da solo, una luce soffusa, un letto grande. Una ragazza. Chi sia non mi è dato saperlo, mi trovo a mio agio. Stiamo stesi sul letto, poi infilo una mano sotto il materasso. Sento qualcosa di freddo, ritiro la mano. Stringe uno specchio.
Un volto, il mio. Ma non riflette la mia immagine, è un’altra.
Il mio volto completamente insanguinato, volta gli occhi dall’altra parte mentre qualcuno grida qualcosa. Vedo delle mani che gli stringono la testa.
Lo specchio non c’è più già. L’ha preso il padrone di casa. Un uomo grosso con la barba. Ma sembra un tipo simpatico e ragionevole. La festa è finita dice. E vedo che nell’altra stanza tutti si stanno sistemando per andare a letto. Sono un po’ triste, la ragazza si mette il cappotto. Penso che potrei accompagnarla a casa, lei dici di sì contenta. Che bello, penso.
Fuori piove. Usciamo ma un senso di angoscia mi opprime. Mi torna in mente lo specchio.

Il sangue, un sacco di sangue.

Saluto tutti e me ne vado, con grazia e disinvoltura. Sono un po’ dispiaciuti, ma quando esco hanno gli occhiali da sole anche se fuori fa buio è brutto e piove.
I miei amici di infanzia, nuovi e vecchi amici, tutti. Una grande tavolata.
Stanno arrivando ancora, ma ormai sto andando via. Invento una scusa, sbatto con l’anca su uno specchietto di una macchina e impreco. L’ho rotto, mi sa.

La notte è ancora giovane,

ma è buia.

Mi aggiro per il campo come un assassino, ombra tra le ombre. Vedo la schiera di tende. In fila ordinate, sotto un arcata. Cerco una tenda precisa.
Incontro una ragazza bionda, la conosco. Mi dice di andarmene, di lasciar perdere, che non è il momento. Ci rimango male.
Ma tutto si scuote perché sta arrivando una bufera. Il vento soffia forte e la terra trema. Mi perdo, tra le tende e le persone che fuggono. Non c’è più nessuno.
Io rimango, devo trovare quella tenda.
Ma non so dove, torno sui miei passi, tra l’erba alta. Il vento che mi colpisce il viso.
Un bambino si dondola da un ramo.
Gli chiedo dov’è la tenda. Lo sa, mi indica un punto al limitare dell’erba, al confine con i grandi pini verdi. Con la foresta paurosa. È là, sferzata dal vento, in balia delle intemperie.
Avanzo tra l’erba, fa freddo. Ho paura di disturbare. Arrivo di fronte l’entrata, proprio accanto i grandi alberi. Apro lentamente la cerniera.
Dentro è caldo e sicuro, ci sono tante coperte e una ragazza avvolta in esse.
Dormiva, apre lentamente gli occhi e sorride. Era lei che cercavo. Mi fa cenno di entrare, le chiedo se sta bene. Mi risponde di sì. Mi sento soddisfatto, era quella la missione: sapere se stesse bene. Mi accoccolo accanto a lei. Mi abbraccia. Poco a poco sento le palpebre pesanti, la stanchezza infondersi delicatamente tra le membra.
Borbotto qualcosa riguardo il pericolo dei lupi lì fuori.
Sssh, siamo al sicuro qua, sussurra lei.

Sbatto le palpebre. La luce mi ferisce gli occhi, i rumori mi colpiscono le orecchie. Tutto il carico di me stesso come persona in forma di paranoie, ricordi, sensazioni, emozioni, torna prepotentemente alla carica come un’onda potente si avventa su di uno scoglio inerme.
Sono sveglio. Diamo il benvenuto ad una nuova giornata del cazzo

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